STUDI RISORGIMENTALI

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Il Re d’Italia in Campidoglio

di I. Ghiron, Il primo Re d’Italia

Altri principi italiani occuparono Roma prima di lui, ma niuno poté mai porvi stabile dimora; solo egli, forte del suo diritto, dell’amore del popolo e della gloria che la lealtà del suo regno, la prodezza delle sue armi gli avevano acquistati poté, non per millanteria, ma per convinzione profonda che era in lui, pronunziare quelle memorabili parole: A  Roma ci siamo e ci resteremo.

Libera questa, era in Italia un parlare continuo che vi si sarebbero fatte nel giorno memorabile in cui vi sarebbe entrato il Re, e chi più ardente aveva la fantasia e più caldo il cuore, più ne pensava di nuove e di  straordinarie. Ma nessuno aveva pensato a quella, nuova e straordinaria veramente, che scelse Vittorio Emanuele, il quale volle entrarvi come padre anziché come Re. Nel dicembre 1870 il Tevere, come avviene assai sovente, straripava ed inondava, in mezzo alla maggior rovina, alla maggior desolazione, un terzo della città. Che fa allora Vittorio? Prende consiglio dal più fido consigliere, il cuore; manda al Sindaco 20000 franchi e la notte del 30 dicembre arriva in Roma in aiuto del suo nuovo popolo. E perché non gli si preparino applausi, dai quali rifugge più che mai in quel momento, non vuole che lo si avverta del suo arrivo. Niun imperatore romano fece ingresso che, nella semplicità sua, fosse più grande di questo! Alle 7 del giorno seguente, quando appena albeggia, esce a piedi per la città, visita i luoghi danneggiati; dà a tutti affettuose parole e più larghi aiuti, e manda al Municipio 200.000 lire.

Alla notizia del suo arrivo, di quella meravigliosa carità, tutta Roma si commuove; prima in preda al più profondo dolore, ora alla vista di lui si anima, si rallegra, e in mille modi manifesta la sua gioia e la sua riconoscenza. A rendergli grazie si presentano la Giunta municipale e gli ufficiali della Guardia nazionale, ed egli tiene a questi, tra l’altre, le seguenti franche ed affettuose parole che ne rivelano tutto l’animo: “Finalmente siamo a Roma, ed io l’ho tanto desiderato. Ora nessuno ce la toglierà”.

 E del suo vivo desiderio aveva dato prova, allorché essendo vicina la guerra tra la Francia e la Germania, egli che per gratitudine si sarebbe assai volentieri unito alla prima e stava già per conchiudere trattato con lei e con l’Austria, dichiarò che non l’avrebbe sottoscritto se non quando Roma fosse tornata libera dalle milizie francesi. Il non aver voluto Napoleone cedere a così giusta domanda, fu causa ch’ei rimanesse privo di alleati e che l’Italia non partecipasse a quella crudelissima guerra.

Trasportata a Roma verso il finire del 1871 la sede del Regno, Vittorio Emanuele che vedeva, dopo tanto tempo, appagato il desiderio della nazione, parlò ai rappresentanti quest’alto e nobile linguaggio, degno veramente di lui, della Città Eterna e dell’Italia: “Signori Senatori, signori Deputati.

“L’opera a cui consacrammo la nostra vita è compiuta. Dopo lunghe prove d’espiazione, l’Italia è restituita a se stessa e a Roma.

“Qui dove il nostro popolo, dopo la dispersione di molti secoli, si trova per la prima volta raccolto nella maestà de’ suoi rappresentanti… qui, dove noi riconosciamo la patria dei nostri pensieri, ogni cosa ci parla di grandezza ma nel tempo stesso ogni cosa ci ricorda i nostri doveri. Le gioie di questi giorni non ce li faranno dimenticare.

“Noi abbiamo riconquistato il nostro posto nel mondo, difendendo i diritti della Nazione. Oggi che l’unità nazionale è compiuta, e si riapre una nuova era della storia d’Italia, non falliremo ai nostri principi.

“Risorti in nome della libertà, dobbiamo ricercare nella libertà e nell’ordine il segreto della forza e della riconciliazione”.